Nel marketing fai-da-te che imperversa nel mondo delle Arti Marziali, uno dei vari mantra è l’affermazione che la pratica di una disciplina “insegna il rispetto”.
Il che è pure vero: uno tra i tanti doni di una pratica costante è anche un’accresciuta propensione al rispetto nei confronti di se stessi e degli altri.
Ma si può davvero “insegnare il rispetto”? E se sì, come?
Una risposta sbrigativa potrebbe indicare nella rigida impostazione gerarchica data dalla cultura giapponese in cui l’addestramento alle arti di combattimento è stato codificato. Per quanto annacquato, arricchito, modificato o distorto dall’incontro con la cultura occidentale, questo segnale è arrivato fino a noi. Nei nostri dojo c’è un maestro, ci sono degli allievi, ci sono gradi, anzianità e qualifiche. C’è una terminologia e una sorta di “ritualità”, una cortesia codificata e riassunta in quel termine giapponese noto come “reishiki”, l’ “etichetta”, appunto.
Di certo, l’educazione formale è quel processo attraverso il quale siamo passati tutti e più volte, in modo più o meno strutturato. La famiglia, la scuola, la frequentazione di una chiesa o di un culto, il lavoro… Presto o tardi ci siamo resi conto tutti che siamo tutti partiti da un formalismo solitamente ben definito (“di’ buongiorno alla maestra”, “chiedi per favore”…) che poi negli anni abbiamo iniziato a declinare secondo il nostro grado di comprensione e accettazione.
L’educazione formale è certamente un piatto nutriente e imprescindibile. Ma non necessariamente porta al rispetto, né alla sua comprensione. Si può essere diplomatici e trasudare forma da ogni poro ed essere completamente freddi o addirittura spietati torturatori col sorriso sulle labbra.
Del resto ciascuno di noi ha conosciuto più di una persona che, non educata alla forma, è stata incapace di dare o di ricevere rispetto perché mancante della grammatica del vivere nelle relazioni.
Allenare l’etichetta è comunque qualcosa di estremamente positivo: il saluto e il ringraziamento che aprono e chiudono la pratica con il compagno modificano lentamente e irreversibilmente la persona, così come il sorriso e la capacità di tacere (verbalmente e fisicamente) quando l’altro “parla”.
Però…Il rispetto è qualcosa di diverso.
Respicere, in Latino, è il verbo che si usa contemporaneamente per significare il voltarsi indietro, il porre una piena attenzione e l’avere “ri-guardo”.
“Essere pienamente concentrati sul momento presente” è un’altra frase (vera) che compone i vari mantra del marketing marziale. Tuttavia bisogna riconoscere che lo sviluppo di questa qualità è collegato alla costanza della partecipazione all’allenamento. A quel keiko che, appunto, significa “riflessione su quanto è passato”. Che è molto, molto più della sola prospettiva fisica, pur importante ma non così totalizzante, diversamente un’Arte Marziale non sarebbe in alcun modo diversa da un programma personalizzato di preparazione atletica.
Pertanto, la prima forma di rispetto è per se stessi: avere la cura e il coraggio di guardare costantemente il proprio cammino per capire, con l’aiuto di maestri e compagni, come migliorare quegli aspetti tecnici, fisici e attitudinali che il “qui e ora” rende possibile alla luce delle lacune che il “passato” mette in evidenza. Senza un keiko costante può esserci la base di una qualsiasi forma di rispetto.
La seconda forma è la “piena attenzione”. In questa prospettiva la “presenza vigile”, lo zanshin, è condizione essenziale per allenare ed esercitare il rispetto. Spremere il massimo da ogni istante è un esercizio faticoso che mette in evidenza solitamente una generale incapacità di vivere pienamente.
Il tentativo di elevare la soglia di attenzione e la qualità di quanto si vive è spesso accompagnato dalla presa di coscienza che tutto il nostro sistema richiede una più attenta ristrutturazione: il sonno, l’alimentazione, la formazione culturale, le letture, la preparazione fisica, la condizione mentale, la spiritualità… Il rispetto quindi è guardare con piena attenzione non solo l’aspetto tecnico (e già sarebbe un buon risultato formale) ma tutta la parte nascosta che esso va a toccare. Considerare una crescita marziale esclusivamente dal punto di vista tecnico è limitare e tarpare quello che facciamo.
Infine, la terza forma è il “ri-guardare”. Guardare con occhi, cuore, mente e fisico sempre più abituati a vedere in profondità.
Vedere nell’altro l’unico strumento per poter migliorare.
Vedere l’altro al di là dei gradi, di quello che “è” fuori e dentro il dojo, con le sue ricchezze e le sue miserie, per poter scoprire le nostre profondità anche nelle relative zone di ombra.
Vedere che in fondo, pur imparando gradualmente a menarci come dei fabbri, questo è l’aspetto più banale e sostanzialmente inutile della pratica se non sblocca dimensioni più ampie.
Tre dimensioni del rispetto, che ritroviamo anche e soprattutto nella vita di tutti i giorni. Una vita in cui pretendiamo spesso ciò che non siamo capaci a dare per primi: capacità di verità sulla strada e sulle scelte che operiamo, anche quando le subiamo; attenzione alla responsabilità di vivere ogni momento in modo consapevole, dotandoci degli strumenti per comprendere e agire di conseguenza; riguardo per la nostra e l’altrui dignità come base per riuscire a dire serenamente dei “sì” e dei “no”.
Senza imposizioni, senza i demoni dell’autorità che spesso celano quell’enorme richiesta di rispetto per sé e che rendono incapaci di darlo ad altri.
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